Prima evidenza di interazione gene-cultura che genera empatia
DIANE RICHMOND
NOTE
E NOTIZIE - Anno XIII – 14 marzo 2015.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di
studio dei soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Evidenze sperimentali recenti suggeriscono che l’associazione fra il polimorfismo del recettore per l’ossitocina (OXTR rs53576) e le tendenze psicologiche e comportamentali legate ad emozioni ed affetti differisce fra persone provenienti dall’Est asiatico e persone di cultura cosiddetta occidentale. Ciò che non si conosce è quale specifica dimensione degli orientamenti culturali interagisce con OXTR rs53576 per dare forma a queste tendenze, e se tali interazioni si verificano sia al livello comportamentale che neurale.
Uno studio,
condotto da Luo e colleghi dell’Università di Pechino, sembra aver dato risposte
convincenti a questi quesiti, grazie ad un’accurata indagine genetica su oltre
mille e cinquecento cinesi (Luo S., et al., Interaction between oxytocin
receptor polymorphism and interdependent culture values on human empathy. Social Cognitive & Affective Neuroscience – Epub ahead of print – doi:10.1093/scan/nsv019, 2015).
La provenienza degli autori dello
studio è la seguente: PKU-IDG/McGovern Institute for Brain Research, Peking-Tsinghua
Center for Life Sciences at School for Life Sciences, Peking University, Beijin
(Cina); Department of Psychology, PKU-IDG/McGovern
Institute for Brain Research, Peking-Tsinghua Center for Life Sciences at
School for Life Sciences, Peking University, Beijin (Cina).
La tendenza diffusa nell’ambito della divulgazione scientifica ad attribuire ad un singolo gene una funzione psichica o un comportamento, non trova alcun riscontro nella realtà biologica umana e, più in generale, dei mammiferi. I geni codificano proteine che, nella maggior parte dei casi, hanno un ruolo enzimatico, strutturale o di regolazione, che prende parte con una miriade di altri fattori molecolari alla costituzione del livello fisiologico cellulare che, a sua volta, è alla base della fisiologia dei sistemi. La patologia genetica degli inizi ci ha mostrato che un gene patologico codificante una proteina alterata, la quale in condizioni normali è come un mattone in un muro funzionale, può far crollare tutto il muro di una funzione; ma ciò non vuol dire che il mattone è il muro. Se questo è già evidente per funzioni biologicamente elementari - si pensi alle mutazioni nel gene di una catena globinica che generano un’emoglobina patologica compromettendo il trasporto ematico dell’ossigeno - lo è ancor di più per quegli aspetti dell’esperienza umana definiti e descritti come facoltà psichiche o funzioni in termini psicologici. Bertrand Jordan dedicò un libro, Gli impostori della genetica, alla demistificazione nell’ambito di una tendenza affermatasi nei media di tutto il mondo e ormai sviluppata come una sottocultura del villaggio globale capace di influenza sui ricercatori[1].
Il rischio di un’erronea attribuzione di valore a geni che codificano proteine degli apparati di segnalazione, in particolare i recettori, non è solo dovuto a tendenze sottoculturali sviluppate intorno alla scienza, ma origina anche da ipotesi scientifiche erronee sul ruolo dei neurotrasmettitori, sviluppatesi a partire dagli anni Settanta e resistite a lungo, perché coerenti con una visione molecolare semplificata della patologia psichica, modellata sulle possibilità terapeutiche dei farmaci e funzionale agli interessi delle multinazionali farmaceutiche. La schizofrenia e varie altre forme di psicosi erano trattate con farmaci in grado di ridurre gli effetti della dopamina e, pertanto, si costruivano “teorie dopaminergiche delle psicosi”; la depressione e i disturbi correlati si trattavano con inibitori della ricaptazione di serotonina e, su questa base, si imbastivano costrutti teorici che consideravano la depressione alla stregua di un deficit di serotonina. Secondo questa visione, i geni codificanti i recettori della dopamina e della serotonina potevano essere “geni della schizofrenia” e “geni della depressione”. Anche quando la ricerca neurobiologica ha dimostrato che, pur volendo adottare un criterio di studio basato sui sistemi neuronici distinti per neurotrasmettitore, tali congetture erano insufficienti e inadeguate a spiegare la fisiopatologia ed ancor più la patogenesi, queste tesi hanno continuato a dominare il campo. Solo di recente sono state accantonate. Le psicosi, infatti, non sono una patologia esclusiva di sistemi dopaminergici, anzi il sistema neurotrasmettitoriale maggiormente interessato nella schizofrenia è quello glutammatergico. Nella depressione si rileva un deficit, in circuiti importanti per le funzioni psichiche, di noradrenalina e dopamina, oltre che di serotonina, e in molti pazienti di sesso maschile sono più efficaci gli inibitori della ricaptazione che accrescono il livello di noradrenalina, degli SSRI che sono selettivi per la serotonina. D’altra parte, da molto tempo una lunga lista di correlati neurochimici, ultrastrutturali e morfo-funzionali di vario genere documenta quadri di alterazioni numerose ed estese alla base dei maggiori disturbi mentali. Tali reperti sono coerenti con quanto la neurobiologia del cervello ha rivelato negli ultimi decenni: “Una struttura organizzata in un’architettura funzionale che crea equilibri armonici fra parti apparentemente eterogenee e che si presta ad essere studiata applicando la teoria matematica della complessità”[2].
Un altro aspetto che può aiutare a tener lontana ogni tentazione riduzionistica ad una ipersemplificazione molecolare della fisiologia psichica, è dato dall’importanza nel modellamento dei circuiti cerebrali operato dai processi di selezione neuronica, gliale e sinaptica che hanno luogo nello sviluppo post-natale, e dalle innumerevoli modificazioni epigenetiche influenzate dall’ambiente.
Fatte queste premesse, per motivare le distanze che prendiamo dalla prospettiva assunta da alcuni nel definire l’ossitocina “molecola della socialità”, “molecola dell’amore”, “molecola della fiducia”, e così via[3], proponiamo a scopo introduttivo un brano tratto da L’ossitocina cerebrale e i nuovi studi di Ludovica R. Poggi.
“L’ossitocina è stata isolata e sintetizzata per la
prima volta nel 1953 da Vincent du Vigneaud che per questa scoperta ottenne,
solo dopo due anni, il Premio Nobel per la Chimica.
Prodotta dalle cellule dell’ipofisi posteriore,
dalle quali è immessa in circolo come ormone, l’ossitocina è un nonapeptide a
struttura ciclica che differisce per due soli aminoacidi dall’altro ormone
neuroipofisario col quale condivide l’origine genetica, la vasopressina; si
ritiene che le due molecole siano il prodotto di una duplicazione genica
avvenuta precocemente nel corso dell’evoluzione. Oltre ad essere sintetizzato
dalle cellule neuroendocrine ipofisarie, il peptide è presente in vari tipi di
neuroni cerebrali che lo impiegano come trasmettitore. La successione degli
aminoacidi nell’ossitocina è la seguente:
Cis-Tir-Ileu-Glu(NH2)-Asp(NH2)-Cis-Pro-Leu-Gli(NH2);
a questa sequenza, per una corretta rappresentazione chimica, si deve
aggiungere la presenza di un ponte disolfuro fra i due residui di cisteina.
Nonostante la grande somiglianza strutturale, i due
peptidi della neuroipofisi hanno azioni principali nettamente distinte, e
quelle dell’ossitocina si possono essenzialmente riportare all’avvio delle
contrazioni uterine, come tipicamente accade nella fase di travaglio del parto,
ed alla fuoriuscita del latte dai dotti galattofori nell’allattamento.
A queste azioni ossitociche note da decenni, in
tempi più recenti se ne sono aggiunte altre, prevalentemente derivate dalla
sperimentazione animale sulle funzioni in qualità di neuropeptide, quali
l’intervento in processi cerebrali necessari per il riconoscimento sociale e lo
stabilirsi di legami fra individui della stessa specie. Durante l’orgasmo
sessuale sono stati registrati picchi di ossitocina negli uomini e nelle donne.
In molti studi sono stati rilevati incrementi dei livelli del peptide in
relazione al contatto fisico e ad altri aspetti del comportamento affettivo e
sessuale, tuttavia i risultati non sono sempre concordanti in ambito umano e
nel caso del bacio intimo e reciproco, ad esempio, è stato rilevato un
innalzamento delle concentrazioni soltanto negli uomini e addirittura una
diminuzione nelle donne (Note e Notizie 29-03-08 Il bacio, la sua fisiologia e
la sua origine). Questi studi suggeriscono prudenza a tutti coloro
che hanno già accreditato la molecola di valore predittivo come indicatore di
stati affettivi.
Uno dei motivi del riaccendersi dell’interesse per
questo peptide consiste nel miglioramento delle tecniche che ne consentono lo
studio fisiologico. Fino a tempi recenti le difficoltà per stabilire con
precisione i livelli ematici di ossitocina erano notevoli, perché è presente in
concentrazioni estremamente basse e si degrada dimezzandosi in soli 180
secondi.
Un altro motivo è dato dalla tentazione, mai sopita in alcuni, di individuare delle “molecole-funzione” per le attività mentali, a dispetto di tutti i progressi che la neurobiologia ha compiuto negli ultimi decenni e della riprova quotidiana che una molecola, sia essa un trasmettitore o un recettore, non ha in sé la chiave di una funzione, che è piuttosto l’espressione coordinata dell’attività di vari sistemi”[4].
Attualmente, numerosi ricercatori indagano l’influenza diretta sul comportamento da parte dell’ossitocina sfruttando la possibilità di somministrare la molecola mediante spray nasali che ne assicurano il rapido arrivo nelle strutture encefaliche. Sharon Palgi e colleghi riportano, quale effetto di ossitocina intranasale, l’aumento di compassione, intesa come il “sentimento di calore, comprensione e gentilezza che motiva il desiderio di aiutare gli altri”, da parte di soggetti di entrambi i sessi verso le donne, ma non verso gli uomini[5].
L’interesse per lo studio di Luo e colleghi nasce dal fatto che si indaga il ruolo del genotipo recettoriale in rapporto a tutte le aree di maggiore importanza per l’elaborazione degli affetti e si cerca una concordanza su un campione di proporzioni numeriche statisticamente molto significative.
Una dimensione chiave degli orientamenti culturali che distingue fra culture dell’Occidente e dell’Est asiatico è l’interdipendenza. Luo e colleghi hanno indagato la possibilità che OXTR rs53576 interagisca con tale parametro influenzando la capacità di empatia umana sottostante la motivazione altruistica e il comportamento rivolto alla realtà sociale.
In una prima categoria di esperimento (Esperimento 1) i ricercatori hanno misurato l’interdipendenza e il tratto dell’empatia, ed hanno analizzato i genotipi OXTR rs53576 di 1536 cinesi, che hanno partecipato come volontari. L’analisi dei dati (HRA, hierarchical regression analyses) ha rivelato un’associazione più forte fra l’interdipendenza e il tratto dell’empatia nei portatori dell’allele G, rispetto a quelli omozigoti A/A di OXTR rs53576.
La seconda categoria sperimentale (Esperimento 2) ha misurato le risposte neurali alla sofferenza altrui, studiando mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI), il cervello di omozigoti A/A e G/G per OXTR rs53576. Anche in questo caso l’analisi dei dati è stata condotta mediante HRA, che ha rivelato associazioni più strette fra l’interdipendenza e le risposte neurali empatiche nell’insula, nell’amigdala e nel giro temporale superiore nei potatori del genotipo G/G rispetto ai portatori del genotipo A/A.
Qualsiasi sia il grado di rilevanza che si voglia attribuire alla segnalazione ossitocinica nella modulazione di sentimenti e comportamenti, i risultati di questo studio costituiscono la prima evidenza sperimentale di una interazione gene-cultura sia al livello dell’attività cerebrale che della tendenza comportamentale.
L’autrice della nota ringrazia il
dottor Lorenzo L. Borgia, che ha materialmente cooperato all’estensione del
testo in italiano, e la dottoressa Isabella Floriani per la revisione, e invita
alla lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono nella
sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina
“CERCA”).
[1] Jordan B., Gli impostori della genetica, Einaudi, Torino 2002. L’autore stigmatizza come emblematici di una deriva cui si è giunti per leggerezza, incoscienza e interessi estranei alla conoscenza scientifica, i continui annunci mediatici della scoperta del “gene della criminalità”, del “gene dell’omosessualità”, del “gene dell’alcolismo”, e così via. Da genetista, Jordan si augura di poter contribuire a far comprendere quanto questo uso improprio di dati sperimentali che attribuisce a singoli geni capacità fisiche, intellettuali, comportamento e personalità, sia una “…dottrina falsa, fondata su una semplificazione e distorsione estreme di ciò che abbiamo recentemente appreso sui geni” (p. IX della Prefazione).
[2] Perrella G., Principi impliciti ed espliciti nello sviluppo e nell’organizzazione del sistema nervoso centrale, p. 1 (trascrizione parziale di una relazione orale tenuta il 17 maggio 2014).
[3] Si invita alla lettura delle numerose recensioni di lavori su questi argomenti nella sezione “NOTE E NOTIZIE”.
[4] Note e Notizie 05-07-08 L’ossitocina cerebrale e i nuovi studi.
[5] Palgi S., et al., Intranasal administration of oxytocin increases compassion toward women. Social Cognitive & Affective Neuroscience 10 (3): 311-317, 2015. Gli autori provengono dal Dipartimento di Psichiatria del Rambam Health Care Campus di Haifa (Israele) e dall’Università di Haifa.